martedì 19 giugno 2012

Sfogo



Questo post è un po’ uno sfogo. D’altra parte spesso questo blog per me è stato terapeutico, quindi nulla di nuovo.
Come sapete sono aquilana e anche fiera di esserlo. Tuttavia i natali me li ha dati Avezzano a 50 chilometri dall’Aquila, di cui conservo tanti ricordi e dove vive parte della mia famiglia. L’Aquila l’ho scelta. Forse all’inizio anche abbastanza inconsciamente, ma qui sono vissuta, in mezzo a questi monti e a questa gente. E a dirla tutta, un po’ estranea mi sono sentita sempre, sia qui che ad Avezzano. E penso che capiti a tutti quelli che nella vita vagano. 

Poi esiste il provincialismo, un coacervo di significati, nessuno dei quali mi piace. E’ infatti un dispregiativo che indica  arretratezza culturale, chiusura mentale, conformismo, caratteri che si ritengono propri della provincia eccetera. Ed esiste anche il campanilismo, cioè la strenua difesa dei valori di un territorio che sfocia in spirito di rivalità, anche molto accesa, con i centri vicini.
E diciamocelo, succede ovunque, per intenderci anche al Nord!
Poi ci sono gli stereotipi quelli secondo i quali, ad esempio, i marsicani (ossia  gli abitanti della Marsica, terra dove sono nata) sono degli “ignorantoni” e invece gli aquilani “colti”, i marsicani “aperti”, gli aquilani “chiusi”. E siccome frequento ambedue le popolazioni a volte mi sento dire: «Oddio, t’è venuta la puzza sotto il naso, come tutti gli aquilani!», oppure «Come sei dura, proprio una marsicana purosangue!». Non mi sono mai avventurata a spiegare che ho anche sangue umbro e, forse, persino calabrese, altrimenti immagino i commenti.
Io sono quella che sono. Se qualcuno mi chiede «Di dove sei?», io rispondo «L’Aquila». Senza alcuna ombra di dubbio. Così se me lo chiedono della mia cara amica Luana (nata a Lanciano) o se mi chiedono di dove sono alcune mie cugine acquisite, dico «di Avezzano», anche se sono nate e vissute per un po’ in Sicilia. E, in tutta sincerità, nella Marsica non fanno tutte queste differenze, anche se, ovviamente, anche lì esistono i clan.
A L’Aquila invece si tiene molto all’aquilanità. Insomma è più aquilano chi a 18 anni se n’è andato a vivere altrove, che chi ci ha vissuto, pur avendo emesso il primo vagito altrove. Una sorta di protezione contro lo straniero, sicuramente anacronistica, ma abbastanza radicata.
Per cui spesso, se non hai i natali d.o.c. puoi arrivare fino ad un certo punto, poi è meglio che ti fermi. 

Quello che sto scrivendo, lo so, è pericoloso, molti aquilani mi criticheranno, perché non è un aquilano a dire queste cose, ma una di fuori. Un po’ come quando qualcuno ci parla male di un parente stretto e ci offendiamo: noi possiamo dire ciò che ci pare, ma gli altri no. Ecco, come se la città intera fosse una grande famiglia, con cognomi precisi, conoscenze l’uno dell’altro molto approfondite e, chiunque non abbia fatto parte di questa famiglia, dei suoi asili, delle sue scuole, dei suoi salotti fin dall’inizio della sua vita terrena, fosse di un altro pianeta.
Se da un lato questo rafforza le tradizioni, rende unico il dialetto, ci fa sentire sicuri, dall’altro ci soffoca, inesorabilmente.

Come posso spiegare ad un aquilano d.o.c. che appena trasferita qui, girando per la città solo ed esclusivamente a piedi, ho passato mesi e anni a girare per tutti i vicoli, che conosco a memoria, a studiare la storia della città, dei suoi palazzi, a imbevermi della sua bellezza, a scovare le abitudini, a frequentare i posti cari alla città? Che fosse un bar, un teatro, una cantina, una biblioteca, le montagne, tutto. Credo di averlo fatto più di tanti altri.
Come posso spiegare ad un aquilano d.o.c. che ogni volta che sento parlare male dell’Università, posso testimoniare che vengono messi alla gogna quasi esclusivamente i professori che vengono da fuori? O che le esagerazioni della movida sono sempre ed esclusivamente attribuite ai fuori sede? Come posso spiegare ad un aquilano d.o.c che questi studenti, per esempio, sono legati e rimangono indissolubilmente legati a questa città? E che tanti dipendenti dell’Università si sono trasferiti, abitano in città, sono aquilani, per scelta.
Appena dopo il terremoto ho visto queste barriere aquilane liquefarsi, come per incanto. Come è naturale che sia: una catastrofe ci rende tutti uguali. Ci ha reso uguali, nel progetto C.A.S.E. lontano dal nostro gioiello e costretti a convivere su piastre e prati.
Poi, forse stremati dal post-terremoto, abbiamo rialzato queste barriere, magari perché è naturale in tanto immobilismo, richiudersi e pensare solo a se stessi. Ma ciò che ci aspetta è una città diversa, con abitanti diversi, con luoghi diversi.
Una città “policentrica” e “poliglotta” che non si può combattere, ma solo accogliere.

Chiudo questo sfogo con un episodio che mi capitò qualche anno fa: spesso a casa facevo cene memorabili con i miei colleghi universitari. Ce ne era uno in particolare di Padova, un chimico, che tutte le volte che veniva a L’Aquila rimaneva stupito di come una città così chiusa dalle montagne fosse non solo  sede di un’ Università, ma che questa fosse anche di qualità eccellente e così piena di studenti! Mi disse: «Evidentemente gli aquilani sono tutti accoglienti come te». Un altro collega, marsicano come me, rispose: «Bada bene, da tanti anni che sto qui non sono mai stato a cena a casa di un aquilano, Giusi è la prima, infatti è marsicana».  

P.S. Se leggete bene questo sfogo, vi accorgerete che parlo da aquilana.




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