mercoledì 3 aprile 2013

L'Aquila, anno IV D.T.



L'Aquila, anno IV dopo terremoto


Ci siamo, è il 6 aprile. E sono trascorsi 4 anni. E questo lo sanno tutti.
Una cosa è certa: per quante ne possiamo aver passate durante questo quarto anno D.T., il 6 aprile arriva sempre, imperterrito.
Le commemorazioni, via via che passa il tempo,  assumono significati più profondi. Sono giorni che mi preparo, che ci prepariamo, ciascuno a suo modo: chi rispolvera vecchie foto, chi ricordi, chi paure, chi lacrime. Sono giorni di “passione” questi, che cancellano qualsiasi altra sensazione che non sia connessa ad un momento: le 3,32 di 1461 giorni fa.

Per quest’anno non me la sento di riassumere ciò che è successo negli ultimi 366 giorni, anche perché meglio di me parlano le foto della mia città. Più che le mie parole cito quelle di un bambino che domenica scorsa, era Pasqua, si trovava in centro con i suoi genitori; era evidentemente la prima volta che veniva a L’Aquila e, rivolgendosi alla madre, ha esclamato «Mamma, ma L’Aquila è proprio una città distrutta!». Parole che rimbombavano tra i palazzi puntellati e striscioni vari delle nostre manifestazioni. E fa eco a ciò che un altro bambino disse tre anni fa: «Non pensavo potesse esistere una città fantasma così grande».
E neanche me la sento di ricordare quei terribili trentotto secondi, scolpiti dentro di noi con la stessa forma. Che non è un numero, 3,32 o 6 o 309, né polvere, né lacrime, né ferita. E’ una ruga, un insieme di rughe indelebili e visibili: attorno agli occhi, alle labbra, sulla fronte. Si percepiscono ad ogni movimento facciale e,  quindi, persino nella spensieratezza e la gioia che, come per tutti, fortunatamente arrivano, anche in zona terremoto.

Il 6 aprile è un giorno nel quale ci incontriamo e  ricordiamo assieme, cosa c’è dentro quelle rughe. Oltre la sofferenza e, ancora, l’incredulità.  

Durante quest’anno appena trascorso,  abbiamo avuto un “momento” simile di condivisione: era il 22 ottobre 2012 e un giudice, a L’Aquila, emetteva una sentenza di condanna nei confronti di una commissione appositamente riunitasi a L’Aquila, 4 anni fa, per valutare il rischio che si stava correndo con lo sciame sismico in atto. E ne uscì una rassicurazione. Uno dei fattori di rischio venne sottovalutato.  
E il filo che corre tra vita e morte si spezzò.
Impressiona ancora ricordare, per chi è ancora vivo, la scossa precedente quella distruttiva, dopo la quale rimanemmo in casa, quasi tutti: era tutto normale.
E così, dopo essere stati ingrati, lagnosi, sfaticati, quest’anno siamo divenuti anche stregoni.

La storia di questi 366 giorni  può essere riassunta in un’ aula di tribunale,  poi  derisa e vilipesa.  

E in tutti i giorni inutili che continuiamo a passare in tribunale, accusati di aver varcato la zona rossa, di aver manifestato, di esserci uniti. Tutti attorno ad una città che ha perduto l’anima.
Ma non la dignità,  intesa come identità morale di un gruppo di persone: un valore intrinseco e inestimabile di ogni essere umano, pur se terremotato.
Non il rispetto, quello che meritano gli aquilani, gli emiliani, i genovesi e tutti coloro che hanno subito eventi catastrofici: che inizi la ricostruzione all’insegna del ricordo, del rispetto, della dignità. Della sicurezza.

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