venerdì 13 settembre 2013

Un mucchio di macerie




Macerie a L'Aquila, quartiere S. Barbara


Girando per L’Aquila (non centro storico) ci si imbatte in tante demolizioni: in corso o appena terminate. La visione di un mucchio di mattoni, cemento e ferro non è una di quelle situazioni nelle quali pensi “Oh, guarda, una casa abbattuta!”. C’è un qualcosa di triste, oscuro nel vedere macerie dove prima c’era una casa. Quando ci si imbatte in una demolizione in corso è anche più misterioso quello che ti accade dentro: una mostruosa forbice sembra mangiare le colonne in cemento armato, i muri, le finestre e lo scheletro che ti si para davanti sembra urlare dolore. 
In realtà a L’Aquila, questa sensazione si mescola con l’ottimismo di guardare avanti: per ogni abbattimento ci sarà una ricostruzione, di solito veloce.

Mi sono fermata a Santa Barbara, davanti al mucchio di macerie che vedete in foto.
Ho dovuto fermare l’automobile, scendere e guardare. Dopo un attimo ho capito perché. 

Era l’11 aprile 2009 (più o meno), ero sfollata a Roma con i miei figli, ma tutte le mattine tornavamo a L’Aquila a prestare aiuto dove capitava. Quella mattina, prima di arrivare in città, mi fermai ad Avezzano. In un supermercato comprai tre filoni di pane ed una chilata di prosciutto. Giunti a destinazione, distribuimmo i viveri agli amici e, arrivati a ora di pranzo, decidemmo di mangiare qualcosa anche noi. Avevamo mezzo filone di pane ed un po’ di prosciutto, ma non sapevamo dove fermarci . Non eravamo soli: c’era il papà dei miei figli ed un suo amico. Ricordo perfettamente la disperazione e l’incredulità.
Decidemmo di accomodarci nel cortile/giardino del condominio che oggi ho visto in macerie; riportai questo momento anche nel libro che ho scritto: “Che fame! Mangiamo del pane. Dove? Nel giardino di quel condominio lì. E si scopre che in questa nuova città, si è più liberi. Si può starsene seduti in un giardino qualsiasi e nessuno dice nulla. Nulla. Nessuno dice nulla. “
Ricordo come strappammo il pane, come ci sembrò speciale, come ci passammo l’unica bottiglia di acqua, come desiderammo un caffè, in silenzio, senza dirci quasi nulla. Come ci sentivamo parte di uno stesso destino, tentando di sorridere mordendo il pane. Sapevamo bene che per tutti era cambiato tutto.

Spesso mi domando perché rimango qui. A parte le difficoltà materiali di trasferimento dovute al lavoro e alla casa, alle relazioni affettive indissolubili, la famiglia, alla caparbietà, al coraggio e forse alla paura, mi dico sempre che deve esserci qualcos’altro a trattenermi. Ed oggi l’ho trovato.

Qui a L’Aquila ogni cosa è speciale, persino un mucchio di macerie.

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